Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
(Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917)
Giovedì 26 maggio, all’età di 90 anni, è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari e del paese di cui è stato il primo sindaco dopo la Liberazione, il dottor Dino Piaser.
D’accordo con i familiari, abbiamo voluto ricordare la sua storia: storia di un giovane uomo che in un momento storicamente drammatico non ha esitato a “prendere parte” inseguendo un ideale di giustizia, di libertà e di salvaguardia dei suoi compaesani, prima ancora che della sua persona.
Nato a Roncade nel 1921, sottotenente dell’esercito, subito dopo l’8 settembre 1943 diede vita – su iniziativa dell’avvocato veneziano Celeste Bastianetto, che a San Michele del Quarto aveva la sua casa di villeggiatura – al primo nucleo di partigiani altinati, costituitosi il 10 ottobre dello stesso anno con il nome Battaglione Autonomo “Sile”.
Scopo principale del Battaglione – rinominato Battaglione di Giustizia e Libertà “Vito Rapisardi” a seguito del collegamento con Giorgio Trentin, figlio di Silvio – era quello di organizzare i militari sbandati, di raccogliere o farsi consegnare le armi dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza presso le stazioni ferroviarie della zona, di evitare il transito delle truppe nemiche per il territorio comunale boicottando le vie di comunicazione, di propagandare la diserzione tra i giovani, tenendo però sotto stretto controllo il livello dello scontro con le truppe nazifasciste, per evitare pericolose ritorsioni e rappresaglie sulla popolazione civile.
Fu a seguito di una di queste numerose operazioni di sabotaggio che Dino Piaser (nome di battaglia “Mirko”) visse l’esperienza più drammatica della sua esperienza di partigiano. Era il 1 dicembre 1944, giorno dell’esecuzione in cui perse la vita il partigiano romano Tommaso Abbate, detto “Tom” (e ricordata dal monumento tutt’ora presente in viale della Resistenza). Consegnatosi alle Brigate Nere per scongiurare l’arresto della madre, Dino si rifiutò di “parlare” e di “fare nomi” nonostante le ripetute percosse e le umiliazioni subite. Portato sull’argine del Sile e messo di fronte al plotone d’esecuzione, riuscì in extremis a mettersi in salvo gettandosi giù dall’argine e fuggendo alle raffiche di mitra, approfittando del buio. Si rifugiò a Treviso, e dopo qualche giorno a Milano, dove nel gennaio del 1945 organizzerà la Brigata Giustizia e Libertà intitolata a Silvio Trentin.
Ricordano i familiari che, ancora a distanza di molti anni dai quei drammatici momenti, Dino continuava festeggiare due compleanni: il 14 gennaio 1921, giorno della sua nascita, e il 1 dicembre 1944, giorno della scampata morte; e che per lungo tempo conservò la sciarpa e il cappotto forati dalle pallottole del plotone di esecuzione.
Dopo la Liberazione Dino tornò a Quarto d’Altino, dove alle prime elezioni amministrative (tenutesi il 31 marzo 1946) fu eletto sindaco per il Partito d’Azione. Aveva appena 24 anni, ed era il più giovane sindaco d’Italia.
Dimessosi dalla carica di primo cittadino nel maggio del 1947 per motivi di studio, ricoprì negli anni successivi la carica di vice sindaco e di assessore alle finanze. Terminati quindi gli studi in veterinaria, nel 1951 fu rieletto sindaco; carica che ricoprì fino al 1956.
Successivamente lavorò come direttore dei macelli di Venezia, quindi come responsabile del settore veterinaria della ULSS veneziana fino al 1986, anno del pensionamento.
Ecco come lo ricorda la nipote – e nostra compaesana – Daniela Millini:
Mio zio Dino ha sempre fatto, in qualche modo, parte della mia vita.
Mi ricordo quando sono nati mia sorella e mio fratello ed eravamo stati temporaneamente affidati a zio Dino e zia Uccia, e quando ci hanno portati in ospedale a vedere la sorellina “nuova” io sono scappata e hanno dovuto inseguirmi tra gli ascensori dei vari piani per un bel po’ di tempo.
Mi ricordo quando lui e la zia hanno accompagnato me e i miei fratelli a Torino, nella nuova casa, sotto una pioggia scrosciante e un’autostrada praticamente allagata, ed è riuscito comunque ad “intrattenerci” perché non ci spaventassimo.
Mi ricordo quando ero al mare con loro, con i miei genitori a 500 km di distanza, e ho pensato bene di farmi venire un attacco di appendicite acuto… velocemente evolutosi in peritonite… La corsa in ospedale, la sensazione di essere comunque al sicuro, anche se i miei genitori non erano lì.
Me lo ricordo quando veniva a Torino, da noi. E insieme a mio padre si guardavano le partite di calcio in TV – quella ancora in bianco e nero, quella di carosello, della TV dei ragazzi, del Magico Alverman e degli sceneggiati. Erano degli interisti sfegatati… Facevano più casino di due ragazzini. Tiravano le ciabatte in aria e urlavano quando c’era un goal – e dicevano delle cose irripetibili, contro gli arbitri e i giocatori della squadra avversaria…
Mi ricordo le due vacanze in Spagna, con loro. Una durante l’estate in cui mio padre stava morendo, e l’altra, dopo. Tutti loro hanno fatto di tutto per farmi star bene, sopportando alla grande anche i miei aspetti meno piacevoli. Non mi sono mai sentita un “in più”, nella sua famiglia – anche se lo ero…
Zio Dino è sempre stato uno zio accogliente, alla mano, meno “imbacchettato” di altri – che pure, sicuramente, a modo loro, mi hanno voluto un sacco di bene. Zio Dino non aveva fisime riguardo ai “protocolli” di abbigliamento e di comportamento. Magari era semplicemente una persona “semplice”. Ma almeno, non pretendeva di insegnarti cosa fare e come vivere. Non ti diceva cos’era giusto o sbagliato, semplicemente faceva ciò che per lui era giusto, senza cercare di raccogliere proseliti o educare discepoli.
Ha rischiato di farsi ammazzare come partigiano, ha fatto il sindaco d’emergenza, subito dopo la guerra. Magari in qualche modo ha fatto la storia, perché ci si è trovato dentro, e ha dovuto fare delle scelte e agire di conseguenza, ma credo che l’aspetto migliore di mio zio fosse che non ha mai creduto che le azioni fossero giuste a prescindere, solo perché un’idea le giustificava. Era una persona estremamente generosa. Ma anche intelligente.
E… mi ha fatto da padre a tempo pieno, per oltre due anni, dopo che il mio padre biologico è morto. Insieme alla zia, mi ha ospitato a casa sua, avendo già un figlio ed una figlia suoi, più grandi di me. Si è ricuccato l’adolescenza, e di una personcina non facile come me. Ed è stata una delle pochissime persone, forse l’unica, che non abbia preteso da me, in quel periodo, che io dovessi essere per forza una “fotocopia ridotta” di mio padre. È riuscito ad esserci per me così com’ero: un essere piccolo, confuso, dolorante e molto, molto arrabbiato.
E poi, da quel momento, c’è sempre stato: al diploma di maturità, alla laurea – era il mio testimone quando mi sono sposata.
Mi chiamava “giovanotta”, da sempre… Anche ora, che ho quasi 50 anni, continuava a chiamarmi così.
Lo ha fatto anche l’ultima volta che l’ho visto, la domenica prima che morisse. Mi ha chiamato, mi ha sorriso, ha stretto la mia mano e non l’ha più lasciata.
E mi ha detto addio.