Trent’anni fa Pietro Calza decideva di riconsegnare alla natura i suoi venticinquemila metri quadrati di terra.
Percorrendo in bicicletta la Via Claudia Augusta ho osservato il progressivo formarsi di questo piccolo lembo di bosco di pianura. Mi sono sempre chiesto chi fosse questo spirito libero che non lottava per far sì che la sua terra diventasse edificabile, ma per il suo esatto opposto, cioè perché essa facesse un viaggio a ritroso nel tempo. Ora che lo conosco di persona ho avuto il privilegio di visitare il risultato della sua opera. Un’opera che mi piace immaginare lenta e paziente, senza fretta, senza costrizioni, animata da un amore per la natura di tipo pratico e anti-libresco.
Pietro non conosce i nomi delle piante, ma dice di conoscerle “di vista”. Cioè gli alberi e le erbe del suo bosco sono quelle presenze che lo hanno accompagnato dall’infanzia all’età adulta; di un nome avevano bisogno perché ogni individuo è diverso dall’altro, ma questo erbario, questa flora lui se li è costruiti da sé.
L’acero campestre va bene per fare le siepi e allora ecco che i limiti della sua terra e le divisioni interne sono segnate da file interminabili di acero campestre. La farnia è un capostipite della pianura, testimone del tempo; è una madre che protegge e nutre le creature del bosco. Ed è la vecchia farnia che affonda le sue radici nel fosso romano che Pietro ci mostra per prima con orgoglio. È lei che ha fecondato tutto il fondo con le sue ghiande, raccolte e disperse dagli animali selvatici. Sarà risparmiata dai lavori di costruzione della tangenziale del mare di Quarto d’Altino? Sembra di sì.
È estate, fuori fa caldo, ma sul sentiero che ci porta all’interno l’aria è fresca e profumata da mille essenze diverse.
Il biancospino, la rosa canina, il caprifoglio, il nocciolo, il noce, il frassino, il tiglio, il pioppo, l’olmo europeo scampato alla grafiosi dei decenni passati. E poi i frutti degli alberi dell’agricoltura tradizionale: le rosse cascate del mirabolano (amolo), il fico, la vite, il gelso, il ciliegio domestico e quello selvatico.
Non mancano poi le radure assolate dove il prato è un tripudio di fiori.
Pietro ci racconta di un caleidoscopio che cambia ogni periodo dell’anno.
Bisogna venire a vedere cosa produce la terra lasciata in gran parte a se stessa e con il piccolo aiuto di un uomo.
Perché la terra, semplicemente lasciata incolta, passando attraverso varie fasi intermedie diventa bosco.
È quello che percepiamo inoltrandoci su un sentiero che passa in una parte che Pietro ha concesso alla Provincia per il ripopolamento della selvaggina. Qui le piante crescono fittamente affiancate; sono giovani, ma formano insieme al sottobosco un intrico per lo più impenetrabile.
Questa è la dimora segreta degli animali.
La nostra escursione finisce in una piccola radura dove Pietro ha sistemato un paio di capanne di legno e alcune pittoresche panchine costruite coi rami grezzi. È un luogo di raccoglimento impareggiabile… sembra impossibile che a poche centinaia di metri si stenda il moderno deserto agricolo dove occhio e spirito si perdono e il sole d’estate riga la terra di crepe.
Testo di Francesco Millini – Foto di Pietro Calza
un bellissimo racconto su un luogo incantato.
grazie Piero e grazie Francesco!
è proprio bellissimo il tuo Bosco caro Piero.
Oggi non son potuta andare alla Riunione settimanale NoTav.isontino di Monfalcone ma, son sicura che verranno altre adesioni dal gruppo oltre alla mia per venire da voi ad incontrarvi
e condividere la gratitudine e ciò che abbiamo nel cuore per questa nostra Madre Terra.
Ciao,per ora un grande abbraccio a tutti :-)) Annalinda
……a sarà dura…
La prossima settimana ci portiamo i ragazzi di prima media, grazie alla disponibilità di Pietro, che vuole condividere con le nuove generazioni questo piccolo grande tesoro del nostro territorio 🙂